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Capitolo 4
Alcune esperienze

Se le zone rurali e le «aldeias comunais» debbono essere per il Mozambico «la colonna vertebrale dello sviluppo», la scuola non può svilupparsi sui modelli elaborati in città. Esiste infatti una cultura urbana ed esiste una cultura rurale. È stata la prima a determinare sinora le caratteristiche di tutto il sistema educativo, pur appartenendo appena a una piccola parte della popolazione del Mozambico. Le finalità, i contenuti dei programmi, le metodologie di insegnamento e la stessa lingua adottata come veicolo d'istruzione sono adattati alle caratteristiche culturali dei giovani cittadini e rispondono ai bisogni del mercato del lavoro urbano meglio che a quelli dei contadini e del mercato del lavoro rurale. Preparano per il lavoro dipendente nel settore terziario più che per il lavoro indipedente nell'agricoltura, nel commercio o nell'artigianato, in ambiente rurale. La popolazione urbana trae molto più vantaggio dalla scuola che non la popolazione rurale. Perché emerga dall'esperienza delle zone rurali una proposta formativa capace di preparare i giovani a organizzare, dirigere e migliorare la loro produzione e la loro vita in armonia con il loro ambiente, è necessaria una profonda rottura con il modello scolastico urbano.

Dalla ricerca applicata sul problema chiave dell'intreccio della produzione e dello studio può scaturire un contributo per il miglioramento dell'efficacia interna ed esterna del sistema educativo. Questo capitolo, che riporta alcune esperienze rappresentative di ciò che è stato fatto tra il 1975 e il 1982 nelle scuole primarie e secondarie, vuoi essere un contributo in tal senso.

a) «Centro piloto Januario Pedro»

Si chiamano «Centros pilotos» le scuole elementari situate nelle regioni liberate dal Frelimo prima dell'indipendenza. Il loro nome sta a indicare che dovrebbero costituire un modello per le scuole dell'intero paese. Pur essendo subordinate al ministero dell'Educazione, dispongono di una certa autonomia per la tutela che esercita direttamente nei loro confronti il Frelimo. Durante la guerra di liberazione il Fronte aveva preso l'impegno verso i suoi combattenti, che erano soprattutto contadini, di farsi carico dell'istruzione dei loro figli, sia durante la guerra, sia dopo. Gli studenti dei «Centros pilotos» sono quindi i figli di ex combattenti, orfani di guerra, o di membri del Frelimo particolarmente meritevoli. Comunque, l'unico privilegio di cui godono questi centri è di avere la priorità nella distribuzione delle scarse risorse umane e materiali a disposizione.

Nell'agosto del 1981, 382 studenti della 3a e 4a classe frequentavano il «Centro piloto Januario Pedro». Era situato nel distretto di Moçimboa da Praia, nella regione di Cabo Delgado, all'estremo nord del Mozambico. Situato in zona rurale, era stato creato dalla popolazione circostante. Presentava quindi le principali caratteristiche della vita di quella regione. Le strutture — aule, dormitori di alunni e insegnanti, refettorio, biblioteca, cucina e latrine — erano costruite secondo la tradizione locale. Ampie e pulite, erano di terra battuta e canne di bambù e avevano il tetto di paglia. La comunità scolastica nell'insieme viveva in condizioni modeste ma non misere, senza abbondanza né agiatezza e senza sprechi. L'ambiente era dignitoso e sereno e l'impegno nello studio e nella produzione si intrecciava all'allegria e alla spensieratezza dei momenti di pausa in cui spontaneamente gli alunni e gli insegnanti si intrattenevano in giochi, canti, danze, scherzi o racconti.

Si svegliavano alle 5 del mattino. Dalle 7 a mezzogiorno studiavano e il pomeriggio, dalle 14 alle 16, partecipavano alle attività produttive. I più grandi, dai 15 ai 18 anni, disboscavano e preparavano il terreno per l'agricoltura, restauravano le vecchie costruzioni o ne edificavano di nuove. In quest'attività, a  volte, avevano il sostegno degli abitanti delle zone e di alcuni familiari. I più giovani, dai 10 ai 15 anni, tagliavano il bambù per le costruzioni, diserbavano, raccoglievano la legna per la cucina, pulivano e nutrivano gli animali. Tutti, indipendentemente dall'età, lavoravano nell'orto. La siccità, aggravatasi ancora negli anni successivi, aveva impedito già allora di raggiungere la meta di produzione agricola che la scuola si era prefissata. Non erano stati raggiunti nemmeno i risultati dell'anno precedente, quando la scuola aveva prodotto, tra le altre cose, 6.000 kg. di riso e 600 di fagioli. Allevavano capre, maiali e anitre.

La produzione nel Centro Januario Pedro, nonostante le difficoltà, costituiva senz'altro un'innovazione rispetto alla maggioranza delle scuole primarie del paese. Tuttavia l'attività didattica si svolgeva secondo i programmi ministeriali e senza alcun nesso nelle sue finalità, nei suoi contenuti e nei suoi metodi con l'attività produttiva. D'altra parte, la preparazione del corpo insegnante non era tale da permetter loro di elaborare localmente un'alternativa. Dal ministero sarebbe potuta sorgere l'iniziativa di inviare persone in grado di raccogliere, rielaborare e unificare l'esperienza didattica e produttiva del Centro, dopo avervi vissuto per un periodo significativo. Ma ciò non è mai avvenuto né per il Centro Januario Pedro né per altri «Centros pilotos». Ciò, forse, è dovuto in parte alla mancanza di specialisti in grado di condurre un lavoro di ricerca e di proporre e testare nuovi metodi e contenuti per il sistema educativo, in parte, anche, alla mancata comprensione della centralità di un tale intervento ed all'inesistenza di una volontà politica in tal senso. Nel 1981, ad esempio, un progetto con questi scopi presentato al direttore della facoltà dell'Educazione ed al vicerettore dell'università di Maputo non è stato preso neanche in considerazione.

Nonostante i limiti indicati, di positivo rimaneva il fatto che la produzione del centro alleviava lo Stato di una parte delle spese di gestione. Gli studenti continuavano le attività, che generalmente svolgevano nella produzione familiare, e la scuola non li contrapponeva alla comunità e alla vita rurale. Se, terminati gli studi elementari, fossero tornati a vivere nel loro ambiente d'origine, lo avrebbero arricchito con ciò che imparavano a scuola, in tutti i campi. L'allevamento degli animali da cortile, praticato nel centro, per esempio, è tradizionalmente trascurato nella regione. Tabù religiosi e tradizione concorrono a determinare una alimentazione carente di proteine, poco variata costituita essenzialmente da mais e manioca. Frutta e ortaggi nell'agricoltura familiare sono poco coltivati.

Nel centro i tabù alimentari venivano messi in discussione. Nonostante la forte tradizione musulmana della regione, gli alunni mangiavano carne di maiale e consumavano regolarmente i pasti anche durante il Ramadan. Imparavano a coltivare ortaggi, legumi e frutta e a comprendere il valore di una dieta ricca e variata. A differenza di ciò che avveniva in ambito familiare, nel centro le attività erano uguali per entrambi i sessi. Gli studenti svolgevano i diversi compiti a rotazione, in base alle forze e all'età di ciascuno. Le alunne, che erano 46, lavoravano con i loro compagni a disboscare. I ragazzi aiutavano in cucina, trasportavano la legna e l'acqua e pestavano nel mortaio gli alimenti. Queste attività sono altrove svolte tradizionalmente solo dalle donne. Per la maggior parte dei giovani la vita organizzata del centro era una novità. Studiavano e lavoravano con regolarità. All'inizio alcuni avevano difficoltà a integrarsi nel programma della scuola perché nelle famiglie la vita era diversa. A casa non esistevano la disciplina e la regolarità negli impegni produttivi né l'abitudine alla programmazione. La maggior parte del lavoro ricadeva sulle donne e le bambine, mentre i ragazzi disponevano di molto tempo libero. Nel centro invece l'uguaglianza tra i sessi trasformava il ritmo delle giornate dei ragazzi.

Gli insegnanti seguivano gli alunni nelle attività produttive, ciascuno di essi era responsabile di una classe e la accompagnava nelle diverse attività.

b) Scuola «Filipe Elija Magaia»: attività nei mesi di vacanza

La scuola primaria «Filipe Elija Magaia» era annessa alla scuola di formazione degli insegnanti elementari omonima, di Maputo. Al termine dell'anno scolastico uno dei due mesi di vacanze veniva dedicato alle «attività produttive». Nel 1981 queste si sono svolte nel vivaio municipale della capitale. Qui, dalle 7,30 alle 11,30, gli alunni della scuola primaria diserbavano, separavano le sementi, aggiustavano i vasi e raccoglievano i fiori da vendere al pubblico. La partecipazione degli studenti a queste attività era obbligatoria. Gli insegnanti avrebbero dovuto accompagnarli, ma manifestavano una certa resistenza a farlo. Il responsabile del vivaio considerava poco significativo dal punto di vista economico il contributo del lavoro degli studenti. Questa attività di un mese l'anno inoltre non era integrata con l'attività didattica. Era un'azione sporadica, un tributo formale ad un «principio della pedagogia socialista» stabilito al vertice e applicato meccanicamente dalla base. Non soddisfaceva né un'esigenza economica né un'esigenza formativa di integrazione di insegnamenti teorici e pratici. Gli insegnanti stessi, in formazione presso il centro «Filipe Elija Magaia», non erano preparati in questo senso. Il caso di questa scuola è emblematico di una situazione assai diffusa nel resto del paese.

c) ...e altre scuole elementari

La scuola di «Maluana» (nella regione di Gaza) nel 1982 era frequentata da 387 studenti esterni. L'attività produttiva si svolgeva per appena un'ora e mezza alla settimana, al sabato, dalle 8 alle 9,30. Alunni e insegnanti lavoravano nell'orto della scuola dove producevano piccole quantità di arachidi, manioca, mais e fagioli. Una produzione del tutto simbolica, e anche in questo caso senza nesso con lo studio. Più che a un'esigenza economica o formativa maturata localmente, la produzione scolastica era stata introdotta a Maluana per rispondere a una direttiva centrale.

Nella scuola elementare «7 di aprile», nel distretto di Manhiça, situata come la scuola di «Maluana» in zona rurale, non esisteva un'attività produttiva regolare. Sporadicamente gli alunni lavoravano per risolvere problemi contingenti: per esempio, tagliavano il «caniço» (canne) per restaurare le costruzioni scolastiche. Più che di attività produttiva pianificata con finalità formativa, si trattava di una risposta puntuale ad una necessità del momento.

La scuola di «Alua», nella regione di Nampula, costituita da 3a e 4a classe, possedeva nel 1982 una buona falegnameria dove venivano costruiti banchi scolastici, tavoli e seggiole, mobili scolastici, sia per uso proprio che per la vendita. V'era un orto di 10 ettari di riso e 2 di ortaggi e, in preparazione, un bananeto e una piantagione di papaie. La scuola possedeva anche una sessantina di maiali. Gli alunni lavoravano nelle diverse attività in gruppi, in parte la mattine in parte il pomeriggio, per due ore al giorno. La loro attività produceva effettivi risultati economici. Anche qui tuttavia, come nel resto del paese, non v'era un riscontro tra lo studio e l'attività produttiva.

d) Scuola secondaria del Frelimo di Mariri

Come in tutte le scuole secondarie del paese, il curriculum della scuola secondaria del Frelimo prevedeva, accanto alle comuni materie scolastiche, lo svolgimento di «attività lavorative». A differenza della maggior parte delle scuole secondarie dove non si realizzava alcuna attività lavorativa, gli studenti della scuola secondaria di Mariri dedicavano, nel 1981, due ore al giorno per cinque giorni alla settimana, alle «attività manuali». La scuola era frequentata da 542 ragazzi e 55 ragazze, iscritti al «ciclo preparatorio» cioè alla 5a e 6a classe, e all'«ensino geral», compreso tra la 7a e la 9a. C'erano 24 insegnanti e 45 funzionari. Un piano settimanale stabiliva per ogni classe, secondo uno schema rotativo, il lavoro da svolgere nei vari «settori» produttivi della scuola. I piani settimanali venivano decisi in funzione del piano annuale della scuola.1 Ogni classe eleggeva tra gli studenti un «attivista» per ognuno dei «settori» di lavoro. La direzione della scuola attribuiva la responsabilità delle attività di ogni settore a un insegnante. Ogni settimana gli alunni «attivisti» insieme all'insegnante «responsabile» analizzavano se il piano era stato portato a termine ed elaboravano una proposta per la settimana successiva. Il piano così elaborato veniva analizzato, discusso e approvato dalla direzione. In seguito veniva affisso e tutta la popolazione scolastica ne prendeva conoscenza per prepararsi a realizzarlo.

Il «settore della produzione agrozootecnica» si articolava nelle «sezioni» della frutticultura, orticultura, culture generali e pecuaria. Nel frutteto v'erano mandarini, aranci, limoni, goiabe, banani, alberi di papaia, di ata, di mango e di cocco. La scuola aveva anche tre piantagioni di alberi di «cajú» (anacardio), molto ben tenuti. Nel 1980–81 avevano reso 10 tonnellate di noccioline che, vendute, avevano fatto incassare alla scuola più di 64.000 Meticais, cioè circa 1.600 dollari. Ogni alunno era responsabile di un albero da frutta. Ogni insegnante di due. Dovevano innaffiarli per lo meno due volte alla settimana, pulirli e potarli. Gli «attivisti della produzione» controllavano l'esecuzione di queste attività, richiamavano chi le trascurava e facevano conoscere i migliori risultati ottenuti nel raccolto. L'orto, un terreno di un ettaro e mezzo, era diviso tra le varie classi. Ogni classe era responsabile di una parte, preparava il terreno e i piantinari, faceva le semine, innaffiava e seguiva il ciclo di ogni coltura. In quattro mesi di quell'anno l'orto aveva prodotto, tra le altre cose, 1.833 chilogrammi di cavoli, 45 di ravanelli e nelle ultime due settimane 978 chilogrammi di pomodori. Le «colture generali», cioè il mais, i fagioli, il sorgo, la manioca, le patate, le zucche e le arachidi, occupavano un terreno di 55 ettari. La produzione era abbondante e variata. Ma la scuola era ancora lontana dall'autosufficienza. Anche a Mariri la siccità aveva provocato i suoi danni. Il mais aveva reso 2.230 chilogrammi contro i 10.600 del 1978 e i 9.000 del 1979 e tutte le altre colture ne avevano ugualmente risentito. Come se non bastasse si era anche rotta la motopompa della scuola e non era facile trovare pezzi di ricambio. Alunni e insegnanti allora hanno costruito la loro «motopompa manuale». Otto studenti ogni giorno, a rotazione, riempivano d'acqua due vecchi bidoni di latta collocati ad un livello più alto rispetto all'orto. Dei tubi conducevano l'acqua dai bidoni all'orto. Il «motore» era l'energia muscolare degli alunni che sollevavano l'acqua, il resto avveniva in base alla legge dei vasi comunicanti, spiegavano con soddisfazione gli studenti.

Il settore della zootecnica possedeva 65 maiali, 70 galline, 22 capre e alcuni conigli. Il numero degli animali era stato maggiore negli anni precedenti. Negli ultimi tempi molti animali erano morti perché la Direzione provinciale dell'agricoltura, a ciò preposta, non garantiva alla scuola un rifornimento regolare di razioni per l'allevamento. Era questo il riflesso di una politica agraria che equiparava la produzione scolastica alla produzione agricola familiare e subordinava entrambe, nella distribuzione dei mezzi di produzione, alle aziende agricole statali. La scuola non riusciva così ad aumentare il numero degli animali in proporzione adeguata alle necessità alimentari dei suoi 600 studenti. Un apporto proteico per i loro pasti veniva sporadicamente dalla pesca. II sabato pomeriggio gli alunni con reti e ami prendevano, nella laguna vicina alla scuola, all'incirca 200 chilogrammi di pesce che servivano per due pasti.

Il «settore dell'igiene» organizzava attività come la pulizia generale della scuola, la costruzione di latrine, il taglio dell'erba per il tetto delle costruzioni e la manutenzione degli edifici. Gli alunni estraevano, a 10 chilometri dalla scuola, la calce necessaria per imbiancare gli edifici. In quindici giorni, nel 1980, hanno estratto 6.963 chili di calce, che è servita per la loro scuola, altre scuole nelle vicinanze e la sede del Frelimo di una località vicina.

Tutti gli alunni a turno partecipavano alla creazione di un «parco di riposo» su iniziativa della organizzazione della gioventù, la Ojm. Costruivano panchine e sdraio, piantavano fiori e riparavano le barchette per la laguna. La scuola disponeva di una falegnameria e di una segheria. Fino ad allora erano stati gli studenti a tagliare la legna da fornire a entrambe. Nel 1982 l'im- presa statale del legname, la Mademo, si assumeva il compito, con un contratto, di fornire la materia prima alla scuola. Così Mariri poteva produrre e vendere una maggior quantità di mobilio scolastico e di legname, preparato nella sua segheria, alle piccole imprese dei dintorni. Nella falegnameria gli alunni imparavano a intarziare le casse di legno pregiato. La loro vendita, insieme a quella degli altri prodotti, costituiva una delle fonti di finanziamento della scuola.

Gli insegnanti partecipavano nelle «attività manuali» insieme agli alunni, per due pomeriggi alla settimana. Gli altri giorni preparavano le loro lezioni e si occupavano degli altri «settori» di cui avevano la responsabilità nella vita della scuola, come i settori della «politica», della «pedagogia», dell'«amministrazione», della «cultura», dello «sport» e della «ricreazione». Tutti gli insegnanti dedicavano un pomeriggio alla settimana all'analisi della vita del centro nel «consiglio degli insegnanti». Il lavoro tra gli studenti era distribuito in base all'età. Le classi frequentate da ragazzi tra i 10 e i 12 anni eseguivano i lavori più leggeri. I più grandi, per esempio, trasportavano i sacchi di viveri mentre i più giovani si occupavano delle pulizie. Ragazzi e ragazze facevano gli stessi lavori: insieme in officina ad aggiustare un motore, insieme in cucina a preparare nel mortaio il mais e il sorgo per i pasti, ed altro ancora.

Quattro alunni e un insegnante formavano la «commissione delle attività di intreccio tra la scuola e la comunità». La commissione si riuniva periodicamente con i rappresentanti di quattro «aldeias comunais» circostanti, le «aldeias» di Naua, Campia, Marremane e Mariri, per programmare attività comuni di aiuto reciproco. La popolazione delle «aldeias comunais» partecipava per esempio alla pulizia della piantagione di anacardio della scuola, e gli alunni a loro volta aiutavano nella costruzione o nella pulizia delle «aldeias», o contribuivano alla preparazione dei campi per la semina. La commissione «scuola-comunità» organizzava, nei quattro villaggi, anche l'alfabetizzazione degli adulti. Nell'81 venti studenti di Mariri della 7a, 8a e 9a classe, insegnavano 10 ore alla settimana a 360 adulti. Diessi 235 frequentavano corsi di alfabetizzazione, che corrispondevano alla 1ae 2a classe del sistema regolare di istruzione. Gli altri 125 erano iscritti ai corsi di educazione degli adulti, che corrispondevano alla 3a 4a e 5a. Quest'ultima classe era composta dai lavoratori della scuola e dai maestri elementari dei villaggi. Gli insegnanti di Mariri aiutavano gli studenti a preparare le lezioni. Due studenti in ogni villaggio collaboravano con i responsabili politici locali alla pianificazione di attività diverse, come il festeggiamento di date commemorative, la raccolta del cotone o la preparazione di nuovi terreni agricoli.

Nei primi anni la scuola secondaria del Frelimo di Mariri ha occupato le installazioni di una missione che era stata nazionalizzata. Per questo nei primi anni di vita ha avuto alcune difficoltà nei rapporti con la popolazione circostante. «La gente era abituata a vedervi i missionari e considerava la scuola un'intrusa. Non capiva che era una scuola per i loro figli, una scuola della gente», spiegava il direttore. Le attività svolte hanno contribuito a far superare queste difficoltà. La situazione è cambiata a tal punto che se sorgeva un problema nel villaggio i suoi abitanti per risolverlo si rivolgevano alla scuola invece che alle autorità politiche e amministrative locali.

L'esperienza di Mariri era il risultato di diverse variabili positive. Il numero degli studenti coinvolti, la qualità della loro partecipazione, l'impegno della direzione e degli insegnanti e, d'altro lato, la buona qualità delle terre permettevano di raggiungere buoni risultati produttivi. Nonostante l'autosufficienza fosse un obiettivo ancora lontano, era indubbio il valore economico delle attività produttive. Il lavoro degli studenti permetteva di diversificare e arricchire la loro alimentazione e sosteneva finanziariamente la scuola. In entrambi gli aspetti, il caso di Mariri costituiva un esempio per gran parte delle scuole secondarie del Mozambico. Indubbio anche il valore di utilità sociale sia delle attività produttive che delle diverse attività di intreccio «scuola-comunità». In senso lato si deve riconoscere anche una valenza formativa al lavoro degli studenti. Nella scuola di Mariri i giovani non divenivano dei fruitori passivi di un servizio sociale. Imparavano anche a produrre beni e servizi socialmente utili. Il limite dell'esperienza ancora una volta consisteva nella mancanza di un legame sistematico tra lavoro e finalità, metodi e contenuti dell'insegnamento. Anche in questo caso i curricoli elaborati centralmente, la formazione inadeguata degli insegnanti e le insufficienti risorse didattiche impedivano all'iniziativa locale di sviluppare ulteriormente l'innovazione. La scuola di Mariri ha fatto molto rispetto alle altre. Anche qui tuttavia, l'entusiasmo e la dedizione degli studenti, degli insegnanti e della direzione della scuola, la buona collaborazione del resto del personale e della comunità, private dell'apporto di competenze e mezzi dalle istanze educative centrali, non sono bastate. Il compito era spesso più grande delle forze a disposizione e l'entusiasmo, alla lunga, tendeva a cedere alla stanchezza, alla disillusione. L'esperienza di Mariri, se sostenuta e sviluppata, avrebbe potuto costituire un importante punto di riferimento e di ispirazione per il nuovo sistema dell'educazione. Non si è saputo, potuto o voluto sostenerla? È un interrogativo al quale appare difficile fornire una risposta convincente.

e) Scuola secondaria del Frelimo di Namahacha

Nel 1982 il curricolo della scuola secondaria del Frelimo di Namahacha prevedeva, oltre alle materie tradizionali, due ore e mezzo di lavoro al giorno nell'orto della scuola, nel campo di mais, nella piantagione di banani o nell'allevamento di diverse specie di animali da cortile. Inoltre due ore erano dedicate settimanalmente alla «teoria della produzione agrozootecnica». Questa materia era direttamente collegata alle attività svolte. I temi di studio erano, per esempio, il ciclo del mais, la rotazione delle colture, l'allevamento dei suini. Le attività produttive si articolavano nei settori dell'agricoltura, della falegnameria, della maglieria, della pulizia della scuola e della cucina. Teoria e pratica della produzione venivano valutate come le altre materie e concorrevano a determinare la classificazione finale semestrale e annuale di ciascun alunno. Gli studenti discutevano la valutazione con l'insegnante ed il resto della classe. Ogni settimana veniva affisso un elenco con i nomi degli alunni che avevano ottenuto i migliori risultati nella produzione e nello studio. Nell'assemblea settimanale della scuola la direzione consegnava un quadro con un disegno di Lenin, da appendere in aula, alla classe che aveva ottenuto i migliori risultati nello studio e nel lavoro. A quella che avesse ottenuto i risultati peggiori, un quadro con una lumaca. La classe che aveva ricevuto la lumaca si dava da fare per potersene liberare. Le altre si sforzavano per ottenere il quadro di Lenin. L'emulazione era accesa. Difficilmente uno dei due quadri rimaneva più di una settimana nella stessa, classe. Queste attività erano considerate di «emulazione socialista». Sarebbe opportuno riflettere su questa iniziativa. L'«emulazione», nonostante il suo aspetto simpatico, rischia infatti di riproporre, sotto nuove spoglie, la competizione che è peraltro incompatibile con obiettivi di cooperazione e socialità.

La scuola di Namahacha aveva 448 studenti interni e 14 insegnanti. Per supplire alla mancanza di insegnanti i migliori studenti della 9a insegnavano nelle prime classi della scuola, la 6a e la 7a. La sveglia era alle 5 e dalle 6,45 alle 12,15 si svolgevano le lezioni. Dopo il pranzo, alle 13,45 si svolgeva la riunione generale della scuola e venivano distribuiti gli incarichi per le «attività produttive». Dalle 14 alle 16,45 gli studenti lavoravano nei diversi settori: un pomeriggio alla settimana era interamente dedicato allo sport ed alle «attività culturali». Dalle 18,30 alle 21, dopo la cena, iniziava lo studio serale individuale o di gruppo.

Le attività produttive avvenivano non senza difficoltà. Come per Mariri, l'organo locale del ministero dell'Agricoltura non considerava la scuola tra le aziende prioritarie nella distribuzione di sementi, mangimi, medicinali per gli animali o strumenti di lavoro. Dava purtroppo priorità alle aziende ad alta intensità di capitale, statali, e considerava la produzione scolastica alla stregua della produzione agricola familiare, quindi di secondaria importanza. Se scarseggiavano dei prodotti, tagliava la quota di quest'ultime a vantaggio delle prime. Così la scuola non riusciva a procurarsi ciò di cui aveva bisogno. La mancanza di mangime l'aveva costretta a ridurre l'allevamento di polli da 300 a 23 capi. Molti conigli erano morti e le coniglie, mal alimentate, non figliavano. La produzione agricola era costituita da una piantagione di banani, un campo di mais ed un orto. Gondryng Muhaia, l'alunno eletto dagli studenti «responsabile della produzione», commentava apprensivo la situazione:

«Invece di 40 sacchi di razione per i maiali ne abbiamo ricevuti 21. Abbiamo perso 25 capi in 5 mesi. Ne rimangono 107 che rischiano di morire. I nostri 61 bovini corrono lo stesso rischio nel periodo secco, da maggio a ottobre. Medicinali per gli animali non ne riceviamo mai. Spesso, quando abbattiamo un capo di bestiame per il consumo dobbiamo buttarlo perché si scopre che era malato. È un anno che non riceviamo né mangimi né sementi. Prima coltivavamo anche carote, insalata, verza, e abbiamo guadagnato 41.000 meticais con la vendita degli eccedenti. Adesso nel nostro orto ci sono solo fagioli e cavoli. Cosa mangeremo in futuro? Mancano i concimi. Usiamo il concime dei nostri animali. Ma non abbiamo stivali e pompe per pulire le stalle e i porcili. Così si diffondono malattie sia tra gli studenti che tra gli animali. Siamo 448 ma abbiamo solo 120 zappe e non c'è modo di comprarne altre perché non abbiamo la priorità nella distribuzione del ministero dell'Agricoltura. Così produciamo molto meno di quanto potremmo».

Per tutte queste difficoltà nel 1982 la scuola ha prodotto, in 17 ettari, 2.663 tonnellate di mais, cioè circa 0,15 tonnellate per ettaro. (Una resa assai modesta se confrontata con la media già di per sé bassa dell'agricoltura familiare di 0,5 tonnellate per ettaro o con la resa di un'azienda privata in zone fertili come Manica e Angonia di circa 2 tonnellate, o di un'azienda statale come Unango, nel Niassa, dove la produttività è stata in alcuni periodi di 4 tonnellate. In un paese europeo, che disponga di acqua, macchine e pesticidi, la resa può raggiungere in media le 8 tonnellate per ettaro). Circa 2.000 chilogrammi di mais sono stati destinati al consumo, un centinaio all'alimentazione degli animali e 500 sono stati conservati come sementi. L'eccedente dei cavoli, commercializzato a un prezzo inferiore al prezzo di mercato, ha reso alla scuola 50.000 meticais. II laboratorio di maglieria funzionava come una piccola azienda. Vi lavorano 37 addette ed ogni pomeriggio le raggiugevano 12 studentesse, durante l'orario delle «attività produttive». Facevano golf e coperte per la scuola e per la vendita. Dalla vendita ricavavano gli stipendi delle magliaie e un discreto profitto per la cassa scolastica. La materia prima era offerta dalla Caritas internazionale. La supervisione del lavoro della maglieria era stata affidata ad una religiosa. Mentre in tutti i settori ragazzi e ragazze lavoravano insieme, nella maglieria lavorava solo personale femminile. Questa situazione era piuttosto insolita in una scuola del Frelimo e veniva spiegata in base al fatto che nessun ragazzo, nella sua vita lavorativa, avrebbe fatto il magliaio.

Durante le vacanze la scuola partecipava alla raccolta del cotone nelle vicine imprese statali, al taglio della canna da zucchero nella azienda agricola di Maragra e alla pulizia dell'ospedale di Namahacha. Gli studenti insegnavano in 5 centri per l'alfabetizzazione situati in prossimità della scuola. II calendario delle attività era denso e impegnativo. Come a Mariri, l'impegno e l'organizzazione erano un elemento di differenziazione delle scuole del Frelimo rispetto alle scuole secondarie comuni. Gli insegnanti constatavano maggior disciplina e coinvolgimento negli studenti provenienti dai «Centros pilotos» che in quelli che venivano dalle altre scuole primarie, generalmente poco abituati al ritmo intenso della scuola e alla vita di comunità. Tra quest'ultimi si erano verificati dei casi di rifiuto del lavoro manuale. Tra quelli dei «Centros pilotos» v'era invece una diffusa coscienza del valore del lavoro.

«Anche se andremo all'università — ha detto uno studente — un giorno ognuno di noi avrà la sua casa e il suo orto e non dovremo dipendere solo dal mercato. La fame è ancora assai diffusa nel nostro paese. È bene avere i prodotti nel proprio campo perché possono mancare sul mercato. Questo discorso vale anche per la nostra scuola».

f) Gecua

Gecua, visitata nel luglio del 1982, vicino al confine con lo Zimbabwe, nella regione di Manica, era stata una scuola missionaria. Nazionalizzata con l'indipendenza, aveva ereditato dal periodo precedente una struttura edilizia di grandi dimensioni e un'azienda agricola ben avviata. Quando i missionari erano andati via, si era persa la competenza che aveva permesso una gestione dell'azienda agricola attiva e redditizia. C'erano stati alcuni anni di crisi. La produzione della scuola ha ricominciato a salire quando è stato assunto con contratto di cooperante un missionario italiano che già da molti anni risiedeva in Mozambico, Emilio Bertuletti. L'azienda della scuola è divenuta, a poco a poco, un esempio per le altre aziende agricole della regione.

Nel ciclo primario erano iscritti 768 studenti e nel secondario 816. Circa 300, tra i due cicli, risiedevano nella scuola. Gecua era stata creata per accogliere come interni appena 150 alunni. Nel 1982 invece il loro numero superava di gran lunga le capacità delle installazioni che si degradavano velocemente. Anche le condizioni igieniche lasciavano molto a desiderare. Gli insegnanti del ciclo primario erano 12, quelli delle secondarie 18. Gran parte di essi risiedeva nella scuola. Il sovraffollamento dell'internato era aggravato dalla situazione di insicurezza della regione creata dalla Renamo. Molti studenti, che non trovano posto nell'internato, dovevano percorrere anche 20 o 25 chilometri al giorno per raggiungere la loro abitazione e correvano un reale pericolo. Proprio in quei giorni un ragazzo era stato ucciso mentre percorreva la strada per recarsi a scuola. Con il ricavato della produzione a Gecua avevano acquistato un camion per trasportare gli studenti. Ma la polizia lo aveva proibito perché «il veicolo non era abilitato al trasporto di persone». Un argomento che non teneva conto della situazione d'emergenza. Il disagio delle distanze e l'insicurezza della situazione militare avevano determinato un aggravarsi del fenomeno degli abbandoni. In tre mesi più di 50 studenti con le loro famiglie avevano passato la frontiera per rifugiarsi in Zimbabwe. E l'esodo sarebbe continuato e aumentato.

Il terreno che la scuola aveva ereditato dalla missione era di circa 1.000 ettari. Della superficie totale 400 ettari erano coltivati, il resto erano boschi di eucaliptus. La piantagione di ciliegi cinesi (licis) occupava 21 ettari, con 2.100 alberi. Nel 1981 la commercializzazione dei licis aveva fruttato alla scuola 1.500.000 meticais, cioè circa 37.500 dollari americani. Bertuletti, facendo un'eccezione alle norme di commercializzazione, con il tacito assenso delle autorità locali, andava a vendere una parte del prodotto in Zimbabwe per ricavarne valuta estera e comprare pezzi di ricambio per le macchine e sementi non reperibili in Mozambico.

Gecua produceva anche agrumi per il consumo interno e per la commercializzazione. Nel 1982 Bertuletti aveva introdotto la produzione del «vino» di pompelmo (aveva portat? dall'Italia delle polverine per tingerlo di rosso!). La vendita ha fruttato, in un anno, circa 100.000 meticais, cioè circa 2.500 dollari. La piantagione di pesche aveva reso, l'anno prima, più di 300.000 meticais e gli 8 ettari coltivati a orto 500.000 meticais, senza contare il consumo interno. I 13 ettari coltivati a mais, avevano reso 70 tonnellate. II settore zootecnico possedeva 146 maiali, 150 galline da uova, 356 conigli e 100 anitre.

Nell'impresa agricola della scuola v'erano 82 salariati i cui stipendi venivano pagati con parte del profitto ottenuto dalla commercializzazione dei prodotti. La produzione di Gecua era venduta in primo luogo ad altri centri scolastici internati, come il «Lar di Chimoio» o la scuola secondaria di «Amatongas». Il resto lo acquistavano aziende della regione o la popolazione locale. La scuola aveva firmato un contratto con l'Ifloma, la compagnia forestale statale. In base ad esso la scuola si impegnava a fornire un certo quantitativo di prodotti in cambio dell'aiuto periodico dei trattori della compagnia, di sementi, e di aiuto per la costruzione di un pollaio per 5.000 animali. Gecua possedeva una sartoria dotata i due vecchie macchine Singer a pedale. Sotto la guida di due suore spagnole, studenti di entrambi i sessi imparavano ad aggiustare il proprio vestiario. Nelle installazioni dell'ex missione funzionavano due centri di alfabetizzazione degli adulti, con 170 iscritti, cui insegnavano 12 studenti. Nell'insieme insegnanti ed allievi non erano motivati per il lavoro e cercavano di evitarlo in tutti i modi. Una norma, che ricordava il periodo coloniale, stabiliva una discriminazione tra interni ed esterni in base alla quale i primi lavoravano due ore al giorno e gli altri appena due ore alla settimana. Entrambi erano indotti a lavorare unicamente dalla minaccia di una punizione per gli assenteisti. Il direttore pedagogico castigava gli studenti che non lavoravano non facendoli mangiare. In seguito aveva sostituito questa punizione con la pulizia delle latrine. Anche gli insegnanti sfuggivano al lavoro nonostante avessero mezza giornata libera. Per farli partecipare, il direttore aveva stabilito tra loro una rotazione obbligatoria e penalizzava gli assenti detraendo loro il 20% del salario quotidiano. Il direttore a sua volta, a differenza di ciò che accadeva nelle scuole secondarie del Frelimo, non aveva mai partecipato alla produzione. Secondo il responsabile del settore, la mancanza di partecipazione di tutta la popolazione scolastica alla produzione faceva sì che i risultati, considerevoli se paragonati in assoluto ad altre scuole, fossero invece molto al di sotto delle potenzialità dell'azienda agricola.

Per comprendere le ragioni della demotivazione verso il lavoro, dopo aver seguito a Gecua le attività della scuola per alcuni giorni, insieme al responsabile nazionale della produzione scolastica si è discusso con la direzione e gli insegnanti e ci si è riuniti con l'assemblea degli studenti. Si riportano, di seguito i brani più significativi di questo incontro.

Uno studente: «Produciamo molto. Cavoli, pomodori, cipolle e altro, ma mangiamo solamente cavoli. Perché? Questo ci disanima».

Un altro: «Un alunno quando ha fame non riesce a lavorare».

Un altro: «Si stanno vendendo prodotti che non mangiamo, per esempio i conigli. Non sappiamo dove va la produzione, se ci sono lucri oppure no, né dove vanno i lucri».

Il responsabile nazionale: «(rivolgendosi alla direzione) Abbiamo detto che la priorità della produzione scolastica è di dare agli alunni l'alimentazione di cui hanno bisogno. Produrre per avere cibo a sufficienza e vendere l'eccedente per comprare coperte, tavoli, camion, trattori per produrre di più e poter fornire alimenti anche ad altri centri scolastici. Ha ragione lo studente che dice di non aver voglia di produrre perché non sa a che serve la produzione. Per produrre è necessario sapere perché e per chi si lavora. Però capiamoci (rivolto agli studenti), perché ieri quando ho detto che dovete mangiar bene volevate vuotare la dispensa. Non così. Bisogna consumare con ordine, senza sprechi. Ho parlato col dispensiere, deve imparare a razionare meglio gli alimenti. Non si possono consumare adesso le sardine e i fagioli e far andare a male i prodotti sul campo e poi soffrire la fame l'estate quando non ci sono ortaggi».

Un altro studente: «Una volta non c'era nulla da mangiare. Ci hanno detto "ognuno si cerchi qualcosa nei campi". Ma mi domando, le nostre galline non fanno uova? I campi non sono pieni di cavoli? Perché non c'era nulla da mangiare?».

Responsabile: «Ci deve anche essere un legame maggiore tra direzione, responsabile della produzione, responsabile della dispensa e alunni. Più organizzazione. Ho notato che l'organizzazione manca anche tra voi quando lavorate. Andate nei campi in gruppi di 30 o 40, invece di dividervi. In un gruppo di 6 il responsabile distribuisce le zappe e le raccoglie alla fine della giornata, così non si perdono. Alla fine del mese si affigge un cartellone con scritto quanto si è prodotto, quanto si è consumato, quanto si è venduto, quanto si è risparmiato e come si può investire il lucro. Si discute tutti insieme come usare il frutto della nostra produzione».

A Gecua la demotivazione degli studenti verso il lavoro traeva origine da diversi fattori. Lavoravano a stento, per la minaccia di un castigo, e la loro attività era svuotata di qualsiasi valenza formativa. La mancanza di coordinamento tra direttore pedagogico e responsabile della produzione era un segnale di questa realtà diseducativa. Mancava una pianificazione ed un controllo delle diverse fasi della produzione e gli studenti erano considerati solo come manodopera. Non erano chiamati a partecipare alla pianificazione e alla gestione dei beni prodotti né informati dell'andamento del settore. Non corresponsabilizzati, cercavano di sfuggire a un'attività di cui non vedevano il beneficio. Colpiva infatti il contrasto tra la ricchezza e la varietà della produzione e la povertà della loro alimentazione. L'assenteismo degli insegnanti e della direzione dalla produzione fungeva da esempio. Altri comportamenti demotivavano gli studenti. Il responsabile provinciale dell'educazione non andava a Gecua da un anno. Quando lo ha fatto, si è fermato il tempo necessario per caricare sul Landrover di servizio dei sacchi di fagioli e di mais per sé, ed è ripartito. Non ha manifestato interesse per i problemi di una realtà educativa di cui aveva la responsabilità. Ho potuto constatare che questo tipo di atteggiamenti — di cui il Frelimo in passato era stato molto critico — si è diffuso negli ultimi anni tra coloro che occupano posti di responsabilità e tendono a utilizzare lo Stato come loro proprietà, per trarne vantaggi personali. Questi elementi, a cui si può pur individuare una giustificazione nell'acuirsi delle difficoltà economiche del paese ed anche nella complessità dell'organizzazione statale, contrastano con le finalità del progetto formativo e costituiscono inevitabilmente un ostacolo al cambiamento.

Gecua disponeva di circa 80 lavoratori agricoli a tempo pieno. Circa la metà di essi erano pagati dal bilancio del ministero dell'Educazione, gli altri dalle finanze della scuola. L'esistenza di questa figura professionale permetteva agli alunni di imparare da loro. A Gecua ed in altre scuole ho potuto osservare tuttavia che, in mancanza di uno specifico intervento educativo volto a sviluppare il rispetto del lavoro manuale, gli studenti tendono a considerare questi lavoratori «al loro servizio».

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